Il nuovo equilibrio fra green e profitto delle imprese.
di Federico Valenza
Le imprese stanno via via comprendendo la necessità di trovare un equilibrio stabile tra le tematiche economiche, quelle sociali e quelle ambientali per garantire la sopravvivenza nel lungo periodo dell’attività aziendale. Se da una parte la sensibilità in relazione a questo tema da parte di imprese e società è aumentata, dall’altra senza dubbio contribuiscono anche le nuove azioni introdotte dal Legislatore e dalle Autorità europee.
A titolo esemplificativo, negli ultimi mesi è stato pubblicato un documento per arginare le irregolarità contrattuali legate ai c.d. PRIIPs (prodotti di investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati) nonché una richiesta di chiarimenti sulla Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) da parte della Commissione Europea – per maggiori informazioni su queste novità, cfr. qui.
Già dall’aprile 2021 con la proposta della Commissione Europea di ampliamento del novero delle imprese tenute alla rendicontazione non finanziaria il contesto ha fatto un ulteriore passo in avanti. Ma prima di arrivare a questo è necessario comprendere il perché di tutta questa attenzione per le tematiche green.
Green washing: cosa significa davvero
Le motivazioni di tutto ciò risiedono nella maggiore consapevolezza dei consumatori, che prediligono prodotti connotati da un valore etico e sociale più che prettamente economico: spesso la scelta ricade su beni “biodegradabili”, “green”, “a kilometro zero”, “no animal tested”, “riciclati” o “riciclabili”. È inevitabile, dunque, che parte degli operatori di mercato voglia sfruttare tale risorsa per vendere di più senza però farsi carico di un vero cambiamento in termini di sostenibilità.
Questo fenomeno viene convenzionalmente chiamato greenwashing, ovvero una “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”. Il risultato è il consumo di beni e servizi percepiti come sostenibili ma in realtà inquinanti.
In questo contesto così complesso in cui nulla sembra riuscire a contenere il libero – e spesso incontrollato – movimento del mercato, è di primaria importanza la figura del revisore. Quest’ultimo, infatti, non si limita a svolgere il proprio lavoro di professionista nel campo dell’audit di bilancio ma diventa una guida per l’implementazione di tematiche socioeconomico-ambientali.
Il Rendiconto non finanziario
Forse proprio per questo la Commissione Europea ha scelto di ampliare il raggio d’azione di questa figura societaria strategica, fornendogli uno strumento maggiormente penetrante nell’economia del Paese.
La Commissione ha, infatti, proposto di modificare la c.d. Corporate Sustainability Reporting Directive, il testo normativo che ha introdotto l’obbligo normativo del c.d. reporting non finanziario delle società, ovvero del report previsto sulle attività diverse da quelle finanziarie. A oggi tale rendiconto è obbligatorio solo per grandi aziende di interesse pubblico ovvero che:
- contano più di 500 dipendenti;
- registrano più di 40 milioni di fatturato oppure;
- hanno un totale dell’attivo dello stato patrimoniale superiore a 20 milioni.
Considerando questo dato dimensionale oggi, solo il 28% delle principali aziende italiane è tenuto a presentare il c.d. Rendiconto di sostenibilità. In più, solo il 40% di queste imprese dedica parte del reporting in oggetto alle tematiche climate, confermando il trend di maggiore consapevolezza dei preparer delle tematiche in ottica ESG. Ecco perché la Commissione UE ha scelto di proporre tale novità normativa, andando a sensibilizzare sul tema un numero sempre maggiore di imprese.
Basta questo a suggerire l’importanza crescente che è destinata ad assumere la figura del revisore poiché questi può contribuire in modo decisivo alla corretta implementazione di strategie e tecniche legate al paradigma della sostenibilità. Ciò che oggi risulta necessario è creare la cultura della sostenibilità e fare in modo che questa divenga colonna portante delle attività aziendali: solo in questo modo l’impegno ambientale, sociale ed economico presentato dalle società (nel rispetto dei paradigmi ESG) diviene concreto e si fa valore reale per consumatori e altri stakeholders. Il revisore ha la possibilità di incidere positivamente su questo contesto grazie proprio alla continua collaborazione con il top management, che diventa fonte e stimolo per l’infusione della sostenibilità fra i core values aziendali.
Il revisore: le sue competenze in materia green
Nel realizzare tutto questo, al revisore sono richieste competenze trasversali e aggiuntive rispetto alle conoscenze “tradizionali” in tema di bilancio e contabilità: in aiuto del professionista accorrono numerose prassi di riferimento (PdR) dettati dall’organismo ISO, l’organizzazione internazionale per l’implementazione di standards comuni. In particolare, la conoscenza dei principi ISO 26.000 legati alla responsabilità sociale è una solida base per accompagnare le società nel proprio percorso verso la sostenibilità, da unire sinergicamente alla consapevolezza delle modalità di rendicontazione delle reportistiche non finanziarie: la corretta individuazione e implementazione degli standards GRI (Global reporting Initiative), legati ai principi di stampo internazionale dettati dalle Nazioni Unite in relazione all’Agenda 2030, sono sicuramente elementi di carattere normativo essenziali, tanto per l’impresa, quanto per il revisore stesso.
Anche l’Unione Europea guarda alla definizione di migliori standards di rendicontazione non finanziaria.
A seguito dei numerosi trattati e piani in tema, tra cui ricordiamo gli Accordi di Parigi del 2015 e il Green Deal Europeo (che punta al net zero entro il 2050 e a una crescita economica pienamente sostenibile), l’Unione compie un nuovo passo mediante l’adozione del Regolamento 825/2020, che propone un fronte comune in tema di sostenibilità e trasparente rendicontazione delle attività aziendali, con il chiaro obiettivo, da un lato, di arginare il fenomeno del green washing per tutelare i consumatori e, dall’altro, di predisporre una definizione comune di sostenibilità. Più recentemente, è stato pubblicato lo standard SRG88088:20 (Social, Responsibility and Governance, datato gennaio 2022), che sancisce i principi cardine per l’implementazione di un sistema organizzativo sostenibile; applicabile a tutte le imprese, di qualsiasi natura o forma esse siano.
Cosa ci attendiamo da questo trend
In attesa di capire come reagiranno mercato e stakeholders, resta ferma la necessità di implementare uno standard setter di valori e prassi deontologiche, con l’obiettivo di garantire la massima espressione di trasparenza e integrità del soggetto revisore e, di conseguenza, dell’impresa che effettua la reportistica.
Nonostante i soggetti legati alle imprese abbiano interessi molto diversi tra loro e apparentemente non comuni, il revisore non può prescindere dalla necessità di unificare i bisogni degli stakeholders sotto l’egida della trasparenza della reportistica, specialmente con riguardo alle tematiche ambientali, sociali ed economiche: solo così è possibile raggiungere, con l’apporto di ciascuno, la vera e piena realizzazione della sostenibilità delle attività aziendali.
Federico Valenza